Diritto all’oblio, diritto alla riservatezza e diritto di cronaca: due recentissime pronunce della Corte di Cassazione.
Con due recentissime ordinanze (n. 7559 del 27 marzo 2020 e n. 9147 del 19 maggio 2020), la Corte di Cassazione si è pronunciata sul tema del diritto all’oblio (i.e. “il giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore ed alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata”, Cass., ord. n. 7559/2020, nella quale è espressamente richiamata Cass. n. 3679/1998), e sulle differenze che intercorrono con il diritto alla riservatezza.
Secondo gli Ermellini (Cass. ord. n. 9147/2020): “il diritto all’oblio, a differenza del diritto alla riservatezza, non è volto a precludere la divulgazione di notizie e fatti appartenenti alla sfera intima della persona e tenuti fino ad allora riservati, ma ad impedire che fatti, già legittimamente pubblicati, e quindi sottratti al riserbo, possano essere rievocati nella rilevanza del tempo trascorso”. In questi termini, particolare influenza ricopre lo scorrere del tempo, il quale può modificare la personalità dell’individuo. La (ri)pubblicazione di una notizia già divulgata può dunque contribuire a fornire un’immagine dell’individuo diversa da quella esistente al momento della originaria divulgazione, con conseguente lesione della identità personale e della reputazione che, alla nuova immagine, si accompagna.
Il diritto all’oblio richiede, poi, un necessario bilanciamento tra diritti della personalità e diritto di cronaca. Compito del Giudice di merito sarà pertanto quello di valutare l’eventuale sussistenza di un interesse pubblico, concreto ed attuale, alla menzione di elementi identificativi delle persone coinvolte a vario titolo nei fatti e nelle vicende riportate. Diversi sono i fattori a tal fine rilevanti come, a titolo esemplificativo, la notorietà del personaggio in questione.
Richiamando i precedenti della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nonché della Corte EDU, la Suprema Corte, nelle pronunce in commento, dà in primo luogo atto dell’influenza che l’utilizzo e la diffusione di Internet ha avuto nel ridefinire i contorni del diritto all’oblio, contribuendo a facilitare notevolmente la diffusione delle notizie. Partendo da tale considerazione, la Cassazione afferma quindi come l’equilibrio tra i diritti fondamentali della persona ed il diritto alla libertà di espressione possa raggiungersi prevedendo che “il gestore del motore di ricerca [sia] obbligato ad intervenire sull’elenco delle informazioni indicizzate provvedendo ad eliminare il link di raccordo verso pagine web dell’archivio online che riportino informazioni sulla persona il cui nome sia stato digitato sulla query del motore di ricerca”, anche qualora la loro pubblicazione su tali pagine web sia (stata) di per sé lecita. Sul gestore grava altresì l’obbligo di “intervenire sull’elenco delle informazioni indicizzate, attualizzando la notizia relativa a vicenda giudiziaria penale dell’interessato facendo figurare per primi i link verso pagine web contenenti informazioni attuali sulla situazione dell’interessato” (Cass., ord. 9147/2020).
In sintesi, la Suprema Corte individua quale possibile “soluzione di ragionevole compromesso” la deindicizzazione degli articoli sui motori di ricerca generali, come Google, Yahoo ed altri (Cass., ord. n. 7559/2020). Ciò consente, nell’interpretazione fornita dai Giudici, di tutelare l’interesse della collettività a mantenere memoria di vicende rilevanti (seppur del passato), in quanto della notizia (pur non più accessibile tramite i comuni motori di ricerca) resta comunque traccia negli archivi storici cartacei ed informatici del mezzo di stampa che ne ha dato notizia. In poche parole, nella l’informazione resta online e la si può rintracciare utilizzando chiavi di ricerca diverse dal nome della persona interessata.
Un ultimo interessante spunto di riflessione è poi offerto dall’ordinanza n. 9147/2020. Richiamando le conclusioni cui è giunta la Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella decisione del 13 maggio 2014, causa C-131/12 (Google Spain SL), la Corte ribadisce infatti come il gestore del motore di ricerca debba essere considerato il responsabile del trattamento dei dati personali. Quest’ultimo è tenuto dunque a i) trovare informazioni pubblicate da terzi su internet; ii) indicizzarle in modo automatico; iii) memorizzarle e metterle a disposizione degli utenti secondo un determinato ordine di preferenza.