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Seminario del 6 ottobre 2017 sul tema: “La legge 8 marzo 2017 n. 24 in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie. Profili di novità della responsabilità medica rispetto al passato”

Relatore: avv. Alessandra Marangelli
La legge 8 marzo 2017 n. 24 in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie. Profili di novità della responsabilità medica rispetto al passato
1. Premessa: i principi ispiratori della riforma
Con Legge 8 marzo 2017, n. 24, titolata “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”[1], il legislatore, nel perseguire l’obiettivo di garantire il diritto alla tutela alla salute degli individui e della collettività, è intervenuto sulla materia della sicurezza delle cure attraverso, da un lato, la previsione di misure e procedure idonee ad assicurare il continuo miglioramento degli standard di sicurezza delle strutture sanitarie e, dall’altro, mediante la ridefinizione dei confini della responsabilità penale e civile degli operatori sanitari.
Si tratta di una riforma del settore, invero attesa da tempo (soprattutto dopo un primo tentativo di riordinare la materia intervenuto con decreto legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modificazioni nella legge 8 novembre 2012, n. 189, c.d. “Legge Balduzzi”), con la quale si è inteso porre un freno all’incremento del contenzioso per responsabilità professionale in ambito sanitario.
Le cause di tale fenomeno sono note. L’innovazione scientifica (diagnostica e terapeutica) degli ultimi decenni ha accresciuto le attese sul buon esito delle cure mediche; di pari passo è aumentata la consapevolezza, da parte dei cittadini, dei propri diritti.
Il timore del contenzioso medico-legale ha incoraggiato i professionisti a porre in essere pratiche difensive caratterizzate dall’abuso di prestazioni e servizi non necessari (c.d. medicina difensiva positiva) ovvero dall’omissione di interventi altamente rischiosi (c.d. medicina difensiva negativa).
Un ruolo determinante, poi, è stato (indirettamente) svolto anche dalla giurisprudenza in materia di responsabilità medica: ci si riferisce, in particolare, all’ampliamento dell’area dei danni risarcibili (che ha incoraggiato la proposizione di azioni risarcitorie a fronte di qualsivoglia evento o esito delle cure non previsto), all’incertezza in ordine alla determinazione del quantum (che incide sul costo dei premi assicurativi a carico delle strutture sanitarie e dei professionisti), oltre che alle facilitazioni introdotte al fine di tutelare la posizione del “paziente”, potenziale soggetto svantaggiato.
Tali condizioni hanno gravato la spesa sanitaria (pubblica e privata) ed i professionisti di costi in parte evitabili, allargato l’area di inappropriatezza ed inefficacia degli interventi sanitari ed intaccato l’indispensabile rapporto di fiducia tra medico e paziente.
In questo scenario, la Legge n. 24/2017 è intervenuta non soltanto normando specificatamente responsabilità (civile e penale) di strutture sanitarie e professionisti del settore, ma altresì regolando l’attività di gestione del rischio sanitario (con istituzione di un centro di raccolta di dati relativi al rischio sanitario, oltre che a cause, entità e frequenza ed onere finanziario del contenzioso), rafforzando le misure di trasparenza dei dati in favore dei pazienti, prevedendo l’obbligo di assicurazione a carico delle strutture sanitarie pubbliche e private e ribadendone l’obbligatorietà a carico dei professionisti (anche al fine di garantire l’efficacia dell’azione di rivalsa da parte delle strutture nei confronti dei loro dipendenti).

2. La sicurezza delle cure: la gestione del rischio clinico (artt. 1, 2 e 3 della Legge n. 24/2017). La trasparenza dei dati (art. 4 della L. n. 24/2017)
La Costituzione tutela la salute come “diritto fondamentale dell’individuo” e come “interesse della collettività” (art. 32).
Il diritto alla salute costituisce un diritto soggettivo azionabile erga omnes. Esso contempla il diritto all’integrità psicofisica, il diritto ad un ambiente salubre, il diritto di scegliere le cure e di rifiutarle, il diritto di essere adeguatamente informato sulle cure, oltre che il diritto “sociale” di prestazione (“La Repubblica … garantisce cure gratuite agli indigenti”).
La Legge n. 24/2017, in apertura, sancisce il principio che la sicurezza delle cure costituisce espressione del diritto alla salute e che lo stesso può trovare la sua piena realizzazione anche nella prevenzione del rischio clinico, ossia mediante tutte le attività finalizzate a prevenire e gestire il rischio connesso all’erogazione delle prestazioni sanitarie, oltre che all’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative (art. 1).
E, dunque, nel primo articolo della Legge in commento ne viene chiaramente declinata una delle finalità principali: la predisposizione di sistemi di c.d. risk management, allo scopo di prevenire l’errore clinico, salvaguardare l’integrità psicofisica dei pazienti e al contempo contenere la spesa sanitaria.
In coerenza con tale finalità, gli artt. 2 e 3 della Legge n. 24/2017 istituiscono i Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, l’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità e attribuiscono la facoltà alle regioni ed alle province autonome di Trento e Bolzano di affidare all’ufficio del difensore civico la funzione di “garante per il diritto alla salute”.
Attorno a tali figure il legislatore ha previsto di incardinare un sistema di governo del rischio clinico articolato e complesso, che dovrà dialogare con le varie realtà aziendali, sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, per condurre al miglioramento complessivo del sistema.
Quanto al garante per il diritto alla salute, come detto, le Regioni (e le province autonome di Trento e Bolzano) hanno la facoltà di affidare al difensore civico (anche) tale funzione (e disciplinarne la struttura organizzativa ed il supporto tecnico).
Il difensore civico dovrebbe assumere la veste di facilitatore del dialogo tra il cittadino (“destinatario di prestazioni sanitarie”), che lamenta “disfunzioni” del sistema, e le strutture sanitarie, così contribuendo, alla deflazione del contenzioso, attraverso un’attività di mediazione destinata a sfociare in un componimento bonario, oltre che fungere da raccordo con le realtà aziendali e regionali per addivenire alla diffusione di best practice ed alla futura prevenzione degli eventi avversi.
Il difensore civico, che può essere adito gratuitamente, una volta ricevuta la segnalazione circa l’esistenza di (possibili) disfunzioni nell’erogazione di prestazioni di assistenza sanitaria, acquisisce gli atti relativi a tale segnalazione e ne verifica la fondatezza. Può, poi, intervenire a ”tutela del diritto leso”, svolgendo una funzione di mediazione preconciliativa, prevenendo o componendo liti tra i destinatari della prestazione e la struttura sanitaria.
Le concrete modalità con le quali tali funzioni saranno effettivamente svolte dal difensore civico saranno disciplinate con leggi regionali; a tale riguardo si evidenzia la natura facoltativa della istituzione del garante alla salute, rimessa alla positiva attivazione delle regioni.
La Legge in commento, poi, istituisce i Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente e l’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità.
Alle strutture sanitarie è imposto l’obbligo di predisporre una relazione annuale consuntiva sugli eventi avversi verificatisi all’interno della struttura, sulle cause degli stessi, oltre che sulle conseguenti iniziative poste in essere. Tale relazione deve poi essere pubblicata sul sito internet della struttura. Oggetto di pubblicazione sono, poi, anche i dati relativi ai risarcimenti erogati negli ultimi cinque anni, così come verificati e monitorati nell’ambito dell’attività di risk management[2] (art. 4, comma 3, della L. n. 24/2017).
Tali dati saranno raccolti dai Centri regionali per la gestione del rischio e da questi trasmessi all’Osservatorio nazionale sulle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità[3], il quale avrà, poi, il compito “anche mediante l’ausilio delle società scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche” iscritte in appositi istituendi albi (v. art. 5 della L. n. 24/2017), di predisporre linee di indirizzo ed idonee misure per la prevenzione e la gestione del rischio sanitario e per il monitoraggio delle best practice sulla sicurezza delle cure, nonché per la formazione e l’aggiornamento del personale sanitario.
Una duplice funzione, insomma. Quanto alla funzione “passiva”, l’Osservatorio si occuperà di acquisire i dati regionali relativi a rischi ed eventi avversi (compresi i c.d. “eventi sentinella” ossia quelli potenzialmente indicativi di un serio malfunzionamento del sistema) ed al contenzioso in materia sanitaria, così operando una razionalizzazione ed unificazione delle banche dati esistenti in materia di rischio clinico e di sinistrosità delle strutture.
Quanto alla funzione “proattiva”, all’Osservatorio spetterà il compito di definire le politiche di gestione del rischio sanitario e delle azioni correttive che consentano di ridurre gli errori (ed i relativi danni).

L’art. 4, primo comma, della L. n. 24/2017 stabilisce che “le prestazioni sanitarie erogate dalle strutture pubbliche e private” sono soggette ad un generale obbligo di trasparenza.
Destinatarie dell’obbligo di trasparenza sono le strutture sanitarie pubbliche e private; oggetto dell’obbligo sono le prestazioni sanitarie da queste erogate.
L’obbligo di trasparenza deve essere contemperato con i principi sanciti dal Codice della Privacy (D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196), come precisato dalla stessa disposizione in commento.
La trasparenza, intesa nel senso di diffusione, pubblicazione e messa a disposizione di dati e documenti, invero, incontra il limite della tutela della privacy, posto che i dati relativi allo stato di salute e l’orientamento sessuale sono considerati dati “sensibili” (v. art. 60 del Codice della Privacy). Ciò posto, si ritiene sempre possibile diffondere dati aggregati relativi alle prestazioni sanitarie erogate ovvero diffondere dati anonimi, purché sia assicurata la irreversibilità assoluta del processo di deitentificazione.
Sempre in un’ottica di “trasparenza”, come visto, le strutture sanitarie devono pubblicare sul proprio sito internet la relazione annuale consuntiva sugli eventi avversi verificatisi all’interno della struttura ed i dati relativi ai risarcimenti erogati negli ultimi cinque anni.
Infine, l’art. 4 disciplina specificamente il diritto di accesso degli “interessati aventi diritto” alla (propria) documentazione sanitaria disponibile presso la struttura (pubblica o privata). È previsto che la struttura debba riscontrare la richiesta nel termine stringente di 7 giorni e fornire le eventuali integrazioni entro il termine di 30 giorni (sempre decorrenti dalla richiesta).
Non sono specificati i rimedi in caso di mancato o tardivo riscontro da parte delle strutture sanitarie. Considerato il richiamo esplicito alla Legge n. 241/1990, si può ritenere che in ipotesi di mancato o tardivo riscontro da parte della struttura, il richiedente possa presentare ricorso ai sensi dell’art. 25, comma 4, della L. n. 241/1990 innanzi al TAR[4].

3. Le “buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida” (art. 5 della L. n. 24/2017). La responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria (art. 6 della L. n. 24/2017)
L’art. 5 costituisce uno dei pilastri della riforma di cui alla Legge n. 24/2017, riconoscendo alle raccomandazioni previste dalle linee guida (in prima battuta) ed alle buone pratiche clinico assistenziali uno specifico ruolo (di particolare e preminente rilievo) nell’ambito della responsabilità (penale) dei professionisti sanitari.
La disposizione modifica radicalmente l’impostazione configurata dalla c.d. “Legge Balduzzi” (art. 3 del D.L. DL 13 settembre 2012, n. 158), la quale aveva generato non poche incertezze interpretative, al punto che è stata sollevata questione di legittimità costituzionale.
In particolare, l’art. 5 stabilisce che gli esercenti le professioni sanitarie si attengono “nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale”, alle “raccomandazioni previste dalle linee guida … salve le specificità del caso concreto”.
Il successivo art. 6, che disciplina la responsabilità penale colposa per morte o lesione personali in ambito sanitario, prevede che, qualora l’evento si sia verificato, nell’esercizio della professione medica, a causa di imperizia, la punibilità sia esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida (ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali), salvo che le raccomandazioni in questione siano adeguate alle specificità del caso concreto.
In ambito penale, viene, quindi, introdotta una vera e propria esimente, che consente di escludere la punibilità del professionista sanitario in caso di osservanza del “comportamento suggerito”.
Le linee guida costituiscono raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante una valutazione della letteratura scientifica e delle migliori evidenze disponibili, con lo scopo di indirizzare la pratica clinica verso un utilizzo razionale delle risorse e migliorare la qualità dell’assistenza, informando il processo decisionale dei sanitari.
Non esiste una definizione legislativa di “linee guida”, ma la norma in commento ha il pregio di aver previsto un sistema di elaborazione e validazione delle stesse.
Il primo comma dell’art. 5 stabilisce che le linee guida valide ai fini della esclusione della responsabilità penale dei professionisti sanitari siano solo quelle elaborate “da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale”[5].
Sono state, quindi, disciplinate le modalità organizzative e procedurali per l’adozione delle linee guida e, in particolare, i soggetti titolati a partecipare alla loro elaborazione (società scientifiche, associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie, enti ed istituzioni pubblici e privati), il regime di pubblicazione nonché un sistema di accreditamento che ne attesta validità ed attendibilità.
Le linee guida sono poi sottoposte al vaglio dell’Istituto Superiore della Sanità che verifica la metodologia adottata rispetto a standard definiti e pubblicati dallo stesso Istituto, e che verifica altresì la rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni. Si tratta di un controllo non solo formale ma anche sostanziale (ossia sui contenuti), che si conclude con la pubblicazione delle linee guida sul sito istituzionale dell’Istituto Superiore della Sanità.
Il procedimento di elaborazione, validazione e pubblicazione delle linee guida previsto dall’art. 5 supera una delle principali criticità rilevate nel vigore della c.d. Legge Balduzzi, la quale espressamente prevedeva che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve” (art. 3). La Legge Balduzzi non forniva indicazioni in merito a quali fossero le linee guida che il giudice avrebbe dovuto tenere presente ai fini della valutazione della condotta del sanitario, limitandosi a prevedere genericamente che queste fossero accreditate presso una non meglio precisata “comunità scientifica”.
Ciò, evidentemente, lasciava al giudice ed al Consulente Tecnico d’Ufficio ampia discrezionalità in ordine alla valutazione dell’esistenza, della validità e della affidabilità delle linee guida che il sanitario aveva ritenuto di applicare nel caso concreto[6].

L’art. 5 della Legge in commento precisa che “in mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali”. Anche in questo caso non viene fornita una definizione normativa di buone pratiche clinico assistenziali, ma sembra di poter ritenere che queste siano raccomandazioni di comportamento clinico non “positivizzate” in linee guida (ossia prassi professionali e consuetudinarie), che il sanitario può utilizzare, in assenza delle linee guida, per il trattamento terapeutico, quali pratiche comunemente ritenute valide dalla comunità scientifica.

Quanto alla responsabilità penale dei sanitari, la relativa disciplina è stata profondamente riformata, in parte sul percorso tracciato dalla citata Legge Balduzzi[7].
Viene introdotto, nel codice penale, l’art. 590-sexies, in base al quale:
“Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma.
Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.
Affinché possa integrarsi la causa di non punibilità prevista dalla disposizione, occorrerà verificare la contemporanea presenza di tre elementi: i) che l’evento sia stato determinato da imperizia; ii) che il medico abbia seguito delle raccomandazioni “qualificate”; iii) che le stesse siano adeguate alla specificità del caso concreto.
Anche l’art. 3, comma 1, della Legge Balduzzi (abrogato dalla L. n. 24/2017), come visto, escludeva la punibilità dei reati commessi dai sanitari, nell’esercizio della propria attività, che si fossero attenuti alle linee guida ed alle buone pratiche; ma, a differenza di tale disposizione, l’art. 6 della L. n. 24/2017 introduce un’esimente che non fa alcun riferimento e non distingue rispetto al “grado di colpa” del medico (grave ovvero lieve).
Tuttavia, la sola forma di colpa rispetto alla quale viene circoscritto l’ambito di specialità della nuova disciplina è l’imperizia; l’esimente, quindi, non vale con riferimento a negligenza ovvero imprudenza.
Quanto al riferimento alle “specificità del caso concreto”, il sanitario può andare esente da responsabilità penale solo ove individui ed applichi correttamente le linee guida sia nell’an che nel quomodo, di talché la causa di non punibilità non è applicabile se il sanitario, pur aderendo alle linee guida, non ne percepisca l’incongruenza rispetto al caso concreto ovvero non sia in grado di modellarle alla concreta vicenda terapeutica.

4. La responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria (art. 7 della L. n. 24/2017)
L’art. 7 della Legge in commento rappresenta uno dei profili di maggiore e più rilevante novità della riforma. Ribaltando l’orientamento giurisprudenziale oramai consolidato in punto di unitarietà, in ambito civile, della responsabilità sanitaria, la norma introduce (rectius ripristina) il sistema del c.d. “doppio binario”: l’esercente la professione sanitaria risponde dei danni causati ai pazienti a titolo di responsabilità extracontrattuale, mentre la struttura sanitaria, pubblica o privata, risponde a titolo di responsabilità contrattuale, ex artt. 1218 e 1228 c.c..
La struttura sanitaria, quindi, risponde per inadempimento delle obbligazioni assunte nei confronti del paziente, nell’ambito del c.d. contratto (atipico) di spedalità. Per espressa previsione, non ha alcuna rilevanza che il medico operante nella struttura sia stato scelto dal paziente ovvero che il rapporto tra la struttura ed il medico sia di lavoro subordinato, essendo sufficiente l’inserimento del medico nella struttura in questione (in omaggio al principio cuius commoda eius et incommoda).
La disposizione trova applicazione anche nel caso di “prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina”.
L’unica ipotesi in cui l’esercente la professione sanitaria risponde a titolo di responsabilità contrattuale è quella in cui la prestazione sia stata resa nell’ambito di un contratto d’opera intellettuale, ossia nello svolgimento dell’attività di libera professione (non intramuraria).
In altri termini: il medico che opera all’interno di una struttura è (sempre) responsabile ex art. 2043 c.c., a meno che non “abbia agito nell’adempimento di un’obbligazione assunta con il paziente”; si tratta dell’ipotesi in cui il medico, pur inserito in una struttura, abbia effettivamente concluso un contratto d’opera intellettuale con il paziente.
Cassata (almeno con riferimento alla responsabilità medica) la teoria del “contatto sociale”, che aveva comportato l’attrazione della responsabilità del sanitario nell’alveo della responsabilità contrattuale, l’assunto di fondo, alla base della previsione di cui all’art. 7 della L. n. 24/2017, è che, anche quando l’errore sia immediatamente imputabile al medico, la causa remota e precedente ad esso “appartiene” alla struttura sanitaria che ha consentito tale errore da parte del medico. Del resto, è oramai acquisito il principio della multifattorilità delle cause degli errori nell’ambito dei sistemi complessi.

La “responsabilità medica” costituisce, oramai da decenni, un vero e proprio sottosistema della responsabilità civile, sottoposto ad un particolare regime di regole di fonte (prevalentemente) giurisprudenziale, che hanno finito per incidere su vari aspetti (la posizione dell’operatore inserito in una struttura sanitaria che è stata attratta nella disciplina contrattuale mediante la teoria del “contatto sociale”, la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato che è stata sempre più affievolita a favore di una categoria di obbligazioni definibile “di quasi risultato”, il giudizio sulla colpa, il ruolo del nesso di causalità, il riparto dell’onere della prova, la quantificazione dei danni risarcibili, il termine di prescrizione).
Nell’ambito della responsabilità medica, vengono in rilevo, da un lato, la posizione giuridica della struttura sanitaria (pubblica o privata) e, dall’altro, quella del medico.
Quanto alla responsabilità del medico, occorre distinguere a seconda che esso operi quale libero professionista ovvero all’interno di una struttura.
Nel primo caso, non si è mai posto in dubbio che tra il medico ed il paziente vi fosse un contratto di prestazione di opera intellettuale ex art. 2230 c.c.: il medico che non adempie alle obbligazioni assunte nei confronti del paziente è tenuto a risarcire i danni ai sensi dell’art. 1218 c.c.; la condotta del medico è valutata ai sensi dell’art. 2236 c.c. (la responsabilità del medico è limitata ai soli casi di dolo o colpa grave, in considerazione della “speciale difficoltà” della prestazione).
Relativamente all’ipotesi del medico inserito all’interno di una struttura sanitaria, la giurisprudenza, in una prima fase, ha fatto a lungo affidamento sulla disciplina della responsabilità da fatto illecito[8], valorizzando la circostanza che il paziente non si trova nella condizione di poter scegliere il medico, il quale agisce quale organo dell’ente ospedaliero. Sulla base di tale indirizzo, il paziente che voleva ottenere dal medico il risarcimento dei danni, doveva provare tutti gli elementi fondanti la responsabilità ex art. 2043 c.c.: l’evento lesivo, la condotta (dolosa o colposa) del medico, il danno e l’ingiustizia dello stesso, oltre che il nesso di causalità tra la condotta ed il danno. L’azione nei confronti del sanitario incontrava, poi, il termine di cinque anni dal giorno in cui al fatto si era verificato (ex art. 2947 c.c.).
Alla fine degli anni 90, tale orientamento è stato superato dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato la responsabilità contrattuale del medico “ospedaliero”, con conseguente riparto dell’onere probatorio più favorevole per il paziente ed allungamento dei termini prescrizionali.
Il leading case è la sentenza della Cassazione 22 gennaio 1999, n. 589. Pur riconoscendo la natura non puramente contrattuale del rapporto tra medico ospedaliero e paziente, i giudici di legittimità evidenziano che il medico, nei confronti del quale il paziente ripone uno specifico affidamento, non può essere equiparato al quisque de populo, cui si riferirebbe l’art. 2043 c.c.; tale norma contempla, invero, l’ipotesi in cui tra danneggiante e danneggiato non intercorra alcun rapporto, se non un generico dovere di neminem laedere.
Il rapporto intercorrente tra medico e paziente costituirebbe, ai sensi dell’art. 1173 c.c. un fatto idoneo a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico.
Il “contatto sociale qualificato”, fondato sull’affidamento che il paziente ripone nella professionalità del medico, viene quindi giudicato meritevole di produrre, in capo al medico, specifici obblighi di comportamento, volti a tenere indenne il paziente dai pericoli a cui è esposto in virtù dell’instaurarsi della relazione. Si tratta di un’obbligazione definita “di protezione”. L’inadempimento a tali obblighi genera responsabilità ai sensi dell’art. 1218 c.c..
Tale revirement giurisprudenziale è stato giustificato anche con il richiamo ad esigenze di solidarietà sociale e di giustizia sostanziale, recepite attraverso l’affermazione del principio della vicinanza dell’onere della prova, per il quale va posta a carico del medico la prova di aver correttamente eseguito l’obbligazione e non a carico del paziente quella di provare che il danno deriva da un fatto illecito addebitabile al medico.
Con il tempo la giurisprudenza ha, poi, di fatto superato anche la tradizionale distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, affermando che “in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche in proporzione variabile”[9]. Si è così completato il processo di oggettivizzazione della responsabilità del sanitario: se le obbligazioni dallo stesso assunte nei confronti del paziente in virtù del “contatto sociale” sono considerate di risultato, questo è esposto al risarcimento in ogni caso in cui non riesca a provare l’assenza di colpa ovvero di nesso causale tra l’inesatta esecuzione della prestazione ed il danno lamentato.
Quanto, invece, alla responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente, questa è stata da sempre qualificata come contrattuale (ad eccezione di un orientamento più risalente, riferito esclusivamente alle strutture pubbliche, ed anteriore alla legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale).
I contorni di tale responsabilità sono stati via delineati e chiariti dalla giurisprudenza di legittimità. Con sentenza 11 gennaio 2008, n. 577, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno definitivamente affermato che il rapporto tra paziente e struttura sanitaria (pubblica o privata) è regolato da un contratto atipico (contratto di spedalità o di assistenza sanitaria), al quale si applicano le regole ordinarie sull’inadempimento fissate dall’art. 1218 c.c..
Le obbligazioni assunte dalla struttura nei confronti del paziente, invero, vanno ben al di là della mera “fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l’apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di “assistenza sanitaria”, che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi c.d. di protezione ed accessori”.
Le obbligazioni assunte dalla struttura sanitaria, secondo tale ricostruzione, sono, quindi, di due tipi: quella di fornire al paziente meri servizi di ospitalità (posto letto, pasti, servizi igienici, etc.) e quella di vera e propria assistenza sanitaria, che ricomprende la messa a disposizione di tutto quanto necessario ed occorrente, per la corretta esecuzione della prestazione sanitaria a favore del paziente, inclusa l’attività degli operatori sanitari.
L’inadempimento alle obbligazioni di ospitalità costituisce senz’altro inadempimento per fatto proprio della struttura. Mentre l’inadempimento ad obbligazioni di assistenza sanitaria costituirebbe responsabilità “per fatto altrui” ex art. 1228 c.c. (sebbene si sia argomentato che anche in caso di errore del medico la struttura risponderebbe comunque per fatto proprio, dal momento che tra le obbligazioni della struttura rientrerebbero quelle di adeguata erogazione del servizio e sicurezza nella erogazione delle cure[10]).

Nel contesto del quadro giurisprudenziale sopra delineato, si è inserita la Legge Balduzzi. L’art. 3 comma 1, del D.L. n. 189/2012, escludendo la responsabilità penale del sanitario, per colpa lieve, ove questo si fosse attenuto alle linee guida ed alle buone pratiche accreditate, precisava che “in tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.”.
Parte della giurisprudenza (di merito) ha dato atto della portata innovativa del testo di legge, proteso ad individuare in capo al medico una responsabilità aquiliana[11].
In particolare, è stato affermato che “Il tenore letterale dell’articolo 3 comma 1 della Legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex articolo 2043 del codice civile e che, dunque, l’obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (che il danneggiato ha l’onere di provare)”, precisando che “In ogni caso l’alleggerimento della responsabilità (anche) civile del medico “ospedaliero”, che deriva dall’applicazione del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla legge Balduzzi (articolo 2043 del codice civile), non ha alcuna incidenza sulla distinta responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una impresa privata non convenzionata), che è comunque di tipo “contrattuale” ex articolo 1218 del codice civile”[12].
All’indomani dell’introduzione della Legge Balduzzi, fin dalle prime pronunce, la Suprema Corte ha affermato, dapprima con un obiter dictum, che: “L’articolo 3 comma 1 D.L. 158/12, conv. L. 189/12, ha depenalizzato la responsabilità medica in caso di colpa lieve, dove l’esercente l’attività sanitaria si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. L’esimente penale non elide, però l’illecito civile e resta fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c. che è clausola generale del neminem laedere, sia nel diritto positivo, sia con riguardo ai diritti umani inviolabili quale è la salute. La materia della responsabilità civile segue, tuttavia, le sue regole consolidate e non solo per la responsabilità aquiliana del medico ma anche per quella contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale” (Cass. n. 4040/2013).
Successivamente, la Suprema Corte ha avuto modo di esprimere in modo ancor più chiaro la sua posizione: “L’art. 3, comma 1, l. 189/2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c., poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni” (Cass. n. 8940/2014).

L’art. 7 della Legge in commento, come detto, opta per il sistema del “doppio binario”: l’operatore risponde esclusivamente ai sensi dell’art. 2043 c.c., dal momento che non conclude un contratto con il paziente, e la struttura è responsabile (oltre che per fatto proprio, altresì) per fatto degli ausiliari di cui si avvale per l’adempimento delle obbligazioni assunte nei confronti del paziente.
Alla luce di ciò, il paziente che ritiene di aver subito un danno e che intende agire congiuntamente nei confronti dell’operatore sanitario e della struttura, chiedendo l’accertamento della responsabilità aquiliana dell’operatore e la conseguente responsabilità della struttura per fatto dell’ausiliario, dovrà provare tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito: dolo o colpa del professionista, nesso causale tra il danno e la condotta, antigiuridicità del danno.
La struttura sanitaria sarà condannata solo se il paziente riuscirà a provare l’illecito del sanitario. La differenza con quanto avveniva precedentemente è allora evidente: la teoria del contatto sociale consentiva un’agevolazione probatoria della responsabilità del professionista, per cui era sufficiente allegare in giudizio il contratto di prestazione (con la struttura) e l’inadempimento del medico; il più agevole accertamento della responsabilità del sanitario comportava, poi, l’immediato riconoscimento della responsabilità della struttura.
Non è chiaro se, alla luce della riforma, il paziente possa convenire in giudizio soltanto la struttura sanitaria, ove intenda allegare l’inadempimento di questa per una condotta del medico. Invero, l’art. 8, comma 4, della Legge n. 24/2017 (v. infra) precisa che la partecipazione al procedimento di accertamento tecnico preventivo “è obbligatoria per tutte le parti”, di guisa che si potrebbe sostenere che il paziente presunto danneggiato debba convenire in giudizio necessariamente anche il medico, con la conseguenza che sarà sempre gravato dell’onere probatorio ex art. 2043 c.c..
Tuttavia, l’art. 9, che disciplina l’azione di rivalsa della struttura sanitaria, prende espressamente in considerazione l’ipotesi in cui l’esercente la professione sanitaria non sia stato “parte del giudizio”, prevedendo, in tal caso che: i) l’azione di rivalsa possa essere esercitata soltanto “sul risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale …”, e che ii) la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro la struttura (o l’impresa assicurativa) non faccia “stato nel giudizio di rivalsa”.
Si deve quindi ritenere che il paziente possa agire convenendo in giudizio soltanto la struttura sanitaria (e non l’operatore), anche in ipotesi di errore del medico. In tal caso il paziente potrà limitarsi ad allegare il titolo della sua pretesa (il contratto di spedalità) e l’inadempimento e non sarà tenuto a soddisfare il più gravoso onere probatorio imposto dall’art. 2043 c.c..

La norma in commento chiarisce che la struttura risponde dell’operato dell’esercente la professione sanitaria, anche ove questo sia scelto dal paziente ed ancorché lo stesso non sia dipendente della struttura, ossia non intrattenga un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato. La responsabilità della struttura è estesa anche ai casi di prestazione svolta dal medico in regime di libera professione intramuraria e di convenzionamento con il Sistema sanitario nazionale.
L’unica ipotesi in cui è possibile escludere la responsabilità della struttura ove il medico abbia operato all’interno della stessa è quella in cui il contratto tra la struttura ed il paziente definisca le obbligazioni di ospitalità che la struttura assume e circoscriva a queste il suo intervento e le sue responsabilità, escludendo espressamente l’obbligazione di assistenza sanitaria, che viene lasciata al rapporto tra il paziente e la struttura.

L’art. 7 precisa che il giudice, nella “determinazione del risarcimento del danno”, dovrà tenere conto del fatto che l’operatore abbia osservato, o no, nell’espletamento del suo incarico, le raccomandazioni previste dalle linee guida o dalle buone pratiche.
Non è chiaro se, anche nel giudizio civile, ove il sanitario (ovvero la struttura) abbia agito nel rispetto delle linee guida e delle buone pratiche, questo vada esente da responsabilità (sempre che l’evento dannoso si sia verificato a causa di imperizia). Ovvero se la norma imponga al giudice di tenere conto del rispetto, o meno, delle linee guida soltanto ai fini della quantificazione del danno. Così non sembra, dal momento che, con espresso riferimento alla determinazione del quantum risarcibile l’art. 7, con l’intento di attribuire maggiore certezza al quantum risarcibile, precisa che questo “ … è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo”.
Viene ribadito (rispetto a quanto già previsto dalla legge Balduzzi), che gli unici criteri di quantificazione del “danno biologico” sia per lesioni di lieve entità che per lesioni di non lieve entità sono quelli di cui alle tabelle redatte ai sensi degli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni Private (D.Lgs. n. 209/2005). Tali tabelle prevedono rigide regole con riferimento all’eventuale riconoscimento della cd. “personalizzazione” che, non può superare il 30% del danno biologico liquidato, per le lesioni c.d. macropermanenti, ed il 20% per le lesioni c.d. micropermanenti.
Allo stato, non è ancora disponibile la “tabella unica nazionale” relativa alle lesioni c.d. macropermanenti, ai sensi dell’art. 138 del Codice delle Assicurazioni Private, per cui relativamente a tali lesioni dovrebbero ancora trovare applicazione le Tabelle predisposte dai Tribunali di Milano e Roma.

La norma si chiude con l’enunciato secondo il quale le disposizioni ivi contenute sono da intendersi “imperative” ai sensi del codice civile. Ciò dovrebbe significare che tutte le disposizioni contenute nell’art. 7 della L. n. 24/2017 sono imperative e che non sono ammesse deroghe alla qualificazione della responsabilità imputata a medici e strutture ovvero ai criteri di quantificazione del danno.

5. Il tentativo obbligatorio di conciliazione (art. 8 della L. n. 24/2017)

Il primo comma dell’art. 8, sempre al fine di ridurre il contenzioso civile, con riferimento alle azioni proponibili nei confronti dell’operatore sanitario, della struttura ovvero (direttamene) della compagnia assicurativa dell’uno e dell’altra, ha disposto l’obbligo del previo esperimento di un accertamento tecnico preventivo ex art. 696-bis c.p.c., in funzione di una composizione conciliativa della lite. Tale procedimento, a fronte dell’accoglimento da parte del giudice dell’istanza di consulenza tecnica prima dell’instaurazione della causa di merito, pone in capo al consulente il dovere di tentare, ove possibile, la conciliazione delle parti, ipotizzando che in tale fase la composizione della lite sia resa possibile o comunque sia favorita dalla conoscenza dei risultati dell’indagine condotta dal consulente. In un’ottica di favor per la conciliazione, è poi previsto che il relativo accordo racchiuso nel processo verbale di conciliazione, goda dell’esenzione dall’imposta di registro ed acquisti, previa omologazione da parte del giudice, efficacia di titolo esecutivo.
Ove l’espletamento della consulenza tecnica preventiva non dovesse condurre ad una conciliazione, l’art. 8 della L. n. 24/2017 stabilisce che l’eventuale domanda giudiziale sia introdotta nelle forme del rito sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c.. Dal momento che ciascuna delle parti può chiedere (ai sensi dell’art. 696-bis c.p.c.) che la perizia sia acquisita agli atti del giudizio di merito, il legislatore ha, quindi, imposto l’adozione del rito sommario di cognizione ritenendo, verosimilmente, che le questioni oggetto di consulenza tecnica siano risolutive della controversia e che non sia necessaria ulteriore istruzione della causa.
Poiché le controversie di risarcimento del danno da responsabilità sanitaria sono pure assoggettate alla mediazione obbligatoria, di cui all’art. 5, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 28/2010, l’art. 8, comma 2, della disposizione in commento ha cura di precisare che i due procedimenti sono tra loro alternativi: spetta alla parte scegliere se introdurre il procedimento di mediazione ovvero quello previsto dalla norma in commento. È espressamente esclusa, in tale materia, la possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita.
La richiesta di ATP costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale di risarcimento del danno derivante da responsabilità medica.
L’improcedibilità della domanda nel giudizio di merito deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Essa è sanabile, in quanto, il giudice, ove rilevi che il procedimento di ATP non è stato espletato ovvero non si è concluso “assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dinanzi a sé dell’istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento”[13].
Una volta espletato il procedimento di ATP, ove non si addivenga alla risoluzione conciliativa della lite, ovvero nell’ipotesi in cui il procedimento non si concluda entro sei mesi dal deposito del ricorso, la condizione di procedibilità si intende comunque soddisfatta.
Possono aversi, quindi, varie ipotesi.
Se il soggetto asseritamente danneggiato ha preventivamene e correttamente proposto ricorso ex art. 696-bisc.p.c.[14] e le parti non siano riuscite a conciliare la lite, questo potrà instaurare il giudizio di merito con ricorso exart. 702-bis c.p.c., chiedendo l’acquisizione della relazione peritale di cui al procedimento per ATP. Chiaramente, ove il giudice ritenga che le questioni di carattere “tecnico” non siano state tutte affrontate ovvero risolte nell’ambito del procedimento per accertamento tecnico preventivo, ovvero vi siano delle questioni giuridiche di particolare complessità da decidere, muterà il rito.
A maggior ragione occorrerà procedere con il rito ordinario ove sia spirato il termine di sei mesi dalla proposizione del ricorso ex art. 696-bis e la relazione peritale non sia stata depositata. Non si ritiene che in tal caso il soggetto danneggiato sia necessariamente tenuto ad introdurre il giudizio nelle forme rito sommario di cognizione.
Altra ipotesi è che il paziente abbia proposto l’azione risarcitoria senza farla precedere dalla consulenza tecnica preventiva. Rilevata l’improcedibilità dell’azione, il giudice disporrà che sia introdotto dinnanzi a sé il procedimento per ATP entro quindici giorni. A differenza che nella mediazione, il giudice non fissa un’udienza successiva. E, pertanto, spetta all’attore, una volta soddisfatta la condizione di procedibilità, proporre ricorso, ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., entro novanta giorni dal deposito della relazione ovvero dalla scadenza del termine perentorio di sei mesi per la conclusione del procedimento di ATP. Solo se il deposito del ricorso avvenga nel termine di 90 giorni, si considerano “salvi gli effetti della domanda”.
Se il danneggiato presenta tempestivamente il ricorso, il giudice fisserà l’udienza per la comparizione delle parti e la conservazione di effetti della domanda farà sì che il processo riprenda a partire dalla prima udienza, che è quella in cui viene ordinato l’assolvimento della condizione.
Ove invece non venga proposto ricorso entro novanta giorni sarà applicabile il terzo comma dell’art. 307 c.p.c. (mancata prosecuzione del giudizio nel termine perentorio stabilito dalla legge), quindi il processo si estinguerà.
L’ultimo comma dell’art. 8 prescrive che la partecipazione al procedimento di ATP è obbligatoria “per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione di cui all’art. 10”. La mancata partecipazione comporta, in automatico (anche per il contumace), la condanna al pagamento delle spese di consulenza e lite, indipendentemente dall’esito del giudizio (ossia dalla soccombenza), oltre che al pagamento di una “pena pecuniaria”, determinata in via equitativa dal giudice, in favore della parte (o delle parti) che è comparsa al procedimento tecnico preventivo. L’aspetto critico di tale “sistema sanzionatorio” risiede nel fatto che esso prescinde del tutto dai motivi della mancata partecipazione e pone dei dubbi di costituzionalità.
Le imprese assicurative hanno, poi, in sede di consulenza preventiva, l’obbligo di presentare un’offerta di risarcimento ovvero di motivare la mancata presentazione dell’offerta. L’assicurazione potrebbe provvedere in tal senso già con il proprio atto di costituzione nel procedimento ovvero durante il corso delle operazioni peritali o (meglio) al termine delle stesse. Essenziale è che tale offerta venga fatta “nell’ambito del procedimento di consulenza tecnica preventiva di cui ai commi precedenti”, perciò prima che il consulente depositi la relazione in cancelleria, essendo questo – in base all’art. 696-bis c.p.c. – il limite temporale entro il quale può essere raggiunta la conciliazione. Qualora non venga proposta un’offerta (quindi anche in caso di rifiuto motivato), l’eventuale pronuncia a favore del danneggiato viene trasmessa in copia all’IVASS “per gli adempimenti di propria competenza”.

6. L’azione di rivalsa e l’azione di responsabilità amministrativa (art. 9 della L. n. 24/2017). L’obbligo di comunicazione (art. 13 della L. n. 24/2017)
Nell’ambito dell’opera di riorganizzazione della responsabilità medica, la Legge in commento interviene altresì a disciplinare le conseguenze dell’azione di responsabilità esperita con successo dal paziente.
In particolare, l’art. 9 disciplina l’azione di rivalsa della struttura sanitaria (privata) e l’azione di responsabilità amministrativa esercitata dal pubblico ministero presso la Corte dei Conti (in ipotesi di accoglimento della domanda di risarcimento proposta nei confronti della struttura sanitaria pubblica), oltre che l’azione di surroga della compagnia assicurativa (la quale, tra l’altro, può essere condannata al pagamento anche all’esito di “azione diretta” esercitata dal paziente ai sensi dell’art. 12 della Legge in commento).
L’esercizio di tali azioni viene subordinato alla circostanza che, a tempo debito, la struttura sanitaria o la compagnia assicurativa abbiano informato il professionista dell’azione rivolta dal danneggiato nei loro confronti o dell’avvio di una trattativa stragiudiziale per il risarcimento. Più precisamente, l’art. 13 prevede che entro dieci giorni dalla notifica dell’atto introduttivo una copia di questo venga inviata all’esercente la professione sanitaria, per posta elettronica certificata o per raccomandata con avviso di ricevimento; con gli stessi mezzi e con identico termine deve essergli comunicato l’inizio di trattative stragiudiziali; il mancato rispetto di queste prescrizioni preclude la proponibilità delle azioni di cui all’art. 9, rendendole inammissibili.
Il legislatore ha tentato di definire un quadro sostanzialmente unitario della responsabilità dell’operatore sanitario nei confronti della struttura in cui opera, sulla base dei seguenti principi cardine:
i) l’azione di rivalsa può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave;
ii) se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno, l’azione di rivalsa può essere esercitata “soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale ed è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall’avvenuto pagamento”. In realtà, come ogni azione di regresso, l’azione di rivalsa può essere esercitata soltanto dopo l’adempimento dell’obbligo principale, quindi occorre che la struttura (o l’assicurazione) abbia già corrisposto il risarcimento. A ciò l’art. 9, secondo comma, aggiunge un termine finale, della durata di un anno dal pagamento, per l’ipotesi in cui l’esercente la professione sanitaria non sia stato parte del giudizio risarcitorio;
iii) la decisione pronunciata nel giudizio in sede civile contro la struttura sanitaria ovvero contro la compagnia assicurativa non fa stato nel giudizio di rivalsa se l’esercente la professione sanitaria non è stato parte del primo giudizio. Qualora, invece, questo sia intervenuto o sia stato chiamato in causa nel primo giudizio, le prove assunte in quel giudizio potranno valere come argomento di prova nel successivo giudizio di rivalsa o di responsabilità amministrativa;
iv) in nessun caso all’operatore sanitario è opponibile la transazione con il soggetto danneggiato.
Quanto alla disciplina della rivalsa da parte della struttura privata nei confronti dell’esercente la professione sanitaria (sia quale dipendente che quale libero professionista) operante all’interno di essa, questa è quella che registra la più significativa innovazione in quanto la responsabilità del sanitario (che nei confronti della struttura sanitaria privata è contrattuale) potrà essere fatta valere esclusivamente per dolo o colpa grave.
Ciò detto, occorre distinguere a seconda che si tratti di operatore sanitario dipendente ovvero di libero professionista.
Solo nel primo caso, l’azione di rivalsa soggiace, in sede di quantificazione del danno e sempre che il comportamento dell’esercente la professione sanitaria sia caratterizzato da colpa grave (e non da dolo), al limite massimo stabilito dal comma 6 dell’ art. 9 (una somma non superiore al valore maggiore del reddito professionale, ivi compresa la retribuzione lorda, conseguito nell’anno di inizio della condotta causa dell’ evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo). Ai medesimi limiti soggiace la surrogazione richiesta dalla compagnia assicurativa (ai sensi dell’art. 1916 c.c.).
Quando, invece, si tratti di esercente la professione sanitaria che presti la sua opera all’interno della struttura sanitaria privata in regime libero- professionale ovvero si avvalga della struttura di cui trattasi nell’adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente) non vale il sopraindicato limite della misura della rivalsa.
Circa la proposizione dell’azione per responsabilità amministrativa, sostanzialmente nulla cambia rispetto al passato, nel senso che essa non è esercitata direttamente dalla struttura sanitaria pubblica, bensì dal Procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti competente per territorio.
Tuttavia, a differenza della precedente azione di responsabilità amministrativa, la posizione del sanitario risulta alquanto alleggerita poiché egli fruirà, in caso di colpa grave, dei nuovi limiti fissati per la quantificazione del danno da risarcire (corrispondente a una somma nel massimo pari a non oltre il valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’ anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’ anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo). Inoltre, sempre ai fini della quantificazione, viene stabilito che il giudice contabile tenga conto delle situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria pubblica in cui l’operatore abbia esercitato la sua attività. Il che sembra preludere anche ad una estensione dell’azione contabile nei confronti degli organi dirigenti dell’azienda sanitaria pubblica, laddove dovessero essere rilevate disfunzioni organizzative.
Si aggiunge, poi, un profilo sanzionatorio: il sanitario condannato nel giudizio contabile non può essere preposto per tre anni a incarichi superiori in qualsiasi struttura sanitaria pubblica; il giudicato costituisce oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori.

7. Obbligo di assicurazione, estensione della copertura assicurativa, azione diretta del soggetto danneggiato (artt. 10, 11 e 12 della L. n. 24/2017)
L’art. 10 ribadisce l’obbligo, a carico delle strutture sanitarie pubbliche e private, di assicurarsi per responsabilità civile verso terzi e responsabilità civile verso i prestatori d’opera (come già previsto dall’art. 27, comma 1-bis, del D.L. n. 90/2014). Specifica che l’assicurazione per responsabilità verso terzi deve coprire anche dai danni causati dal personale della struttura “a qualunque titolo operante presso le strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche e private, compresi coloro che svolgono attività di formazione, aggiornamento nonché di sperimentazione e di ricerca clinica”, oltre che dai danni causati da sanitari operanti in regime di libera professione intramuraria.
Viene fissato altresì l’obbligo per le strutture di stipulare ulteriore polizza assicurativa per la copertura della responsabilità extracontrattuale degli esercenti la professione sanitaria, per l’ipotesi in cui il danneggiato decida di agire direttamente nei loro confronti. È chiaramente fatta salva la possibilità di esperire azione di rivalsa ai sensi dell’art. 9 della Legge n. 24/2017. Tale obbligo di ulteriore copertura assicurativa riguarda esclusivamente gli esercenti operanti stabilmente presso le strutture stesse.
In altre parole, l’obbligo di assicurarsi non scatta, per la struttura, relativamente ai soli sanitari che operino “al di fuori” della stessa ovvero che prestino la loro attività in regime libero-professionale (puro e non intramurario) o che operino nella struttura sanitaria avvalendosene esclusivamente in adempimento di un obbligazione contrattuale assunta direttamente con il cliente (art 10, comma 1, ult. periodo e comma 2): in tali casi, infatti, saranno questi ultimi soggetti a doversi dotare obbligatoriamente di una propria copertura assicurativa.
Agli esercenti è fatto, poi, obbligo di dotarsi di una copertura assicurativa a copertura della (propria) responsabilità, per colpa grave, nei confronti delle strutture sanitarie, al fine di garantire “efficacia alle azioni” di rivalsa (o di responsabilità amministrativa) dalle stesse promosse (ovvero promosse dalle compagnie assicurative).
Tali polizze avranno le caratteristiche stabilite, con decreto, dal Ministero dello Sviluppo economico (d’intesa con il Ministero della Salute e con il Ministero dell’Economia e delle Finanze). Verranno, quindi, definiti requisiti minimi delle polizze “con individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati”, oltre che “le condizioni generali di operatività”.
Le polizze dovranno comunque senz’altro prevedere “operatività temporale anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purché denunciati all’impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza” (art. 11). Ciò anche per la specifica ipotesi di cessazione dell’attività professionale, anche in caso di decesso dell’esercente, con conseguente responsabilità degli eredi.
Ai sensi dell’art. 12, ai pazienti è attribuita la facoltà di agire direttamente nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura e di quella del sanitario non dipendente (ovvero dei soli sanitari non “strutturati” di cui all’art. 10, comma 2), nei limiti delle somme previste dal contratto assicurativo (si tratta di azione regolata sulla falsariga di quella di cui all’art. 144 del Codice delle Assicurazioni Private per i sinistri derivanti dalla circolazione stradale). In tal caso, la compagnia non potrà sollevare eccezioni derivanti dal contratto di assicurazione, se non nei limiti di quanto verrà disposto con il citato decreto ministeriale al quale sono demandate la disciplina e i requisiti minimi delle polizze assicurative (art. 10, comma 6) ed alla cui entrata in vigore è subordinata la stessa vigenza della norma sull’azione diretta.

Nell’ipotesi di azione diretta verso la compagnia di assicurazione la Legge prevede il litisconsorzio necessario della struttura ovvero del sanitario. È quindi imposto il litisconsorzio fra le parti interessate dal rapporto assicurativo obbligatorio e non tra tutti i soggetti potenzialmente responsabili: nel giudizio contro la compagnia assicurativa della struttura non è litisconsorte necessario il medico, e viceversa.

[1] La L. n. 24/2017 è stata pubblicata in G.U. 17 marzo 2017, n. 64, ed è in vigore a decorrere dal 1° aprile 2017.
[2] Si tratta dell’attività svolta ai sensi dell’art. 1, comma 539, della Legge 28 dicembre 2015, n. 208.
[3] Lo schema di decreto ministeriale istitutivo dell’Osservatorio nazionale sulle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità (di cui all’art. 3 della L. n. 24/2017) è stato trasmesso alla Conferenza Stato Regioni. L’istituendo Osservatorio sostituirà l’Osservatorio buone pratiche per la sicurezza dei pazienti e l’Osservatorio nazionale sinistri e polizze assicurative
[4] “Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di diniego dell’accesso, espresso o tacito, o di differimento dello stesso ai sensi dell’articolo 24, comma 4, il richiedente può presentare ricorso al tribunale amministrativo regionale ai sensi del comma 5, ovvero chiedere, nello stesso termine e nei confronti degli atti delle amministrazioni comunali, provinciali e regionali, al difensore civico competente per ambito territoriale, ove costituito, che sia riesaminata la suddetta determinazione. Qualora tale organo non sia stato istituito, la competenza è attribuita al difensore civico competente per l’ambito territoriale immediatamente superiore. Nei confronti degli atti delle amministrazioni centrali e periferiche dello Stato tale richiesta è inoltrata presso la Commissione per l’accesso di cui all’articolo 27 nonché presso l’amministrazione resistente. Il difensore civico o la Commissione per l’accesso si pronunciano entro trenta giorni dalla presentazione dell’istanza. Scaduto infruttuosamente tale termine, il ricorso si intende respinto. Se il difensore civico o la Commissione per l’accesso ritengono illegittimo il diniego o il differimento, ne informano il richiedente e lo comunicano all’autorità disponente. Se questa non emana il provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico o della Commissione, l’accesso è consentito. Qualora il richiedente l’accesso si sia rivolto al difensore civico o alla Commissione, il termine di cui al comma 5 decorre dalla data di ricevimento, da parte del richiedente, dell’esito della sua istanza al difensore civico o alla Commissione stessa. Se l’accesso è negato o differito per motivi inerenti ai dati personali che si riferiscono a soggetti terzi, la Commissione provvede, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta, decorso inutilmente il quale il parere si intende reso. Qualora un procedimento di cui alla sezione III del capo I del titolo I della parte III del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, o di cui agli articoli 154, 157, 158, 159 e 160 del medesimo decreto legislativo n. 196 del 2003, relativo al trattamento pubblico di dati personali da parte di una pubblica amministrazione, interessi l’accesso ai documenti amministrativi, il Garante per la protezione dei dati personali chiede il parere, obbligatorio e non vincolante, della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi. La richiesta di parere sospende il termine per la pronuncia del Garante sino all’acquisizione del parere, e comunque per non oltre quindici giorni. Decorso inutilmente detto termine, il Garante adotta la propria decisione”.
[5] L’elenco è stato istituito dal Ministero della salute con D.M. 2 agosto 2017 (pubblicato in G.U. 10 agosto 2017, n. 186).
[6] Proprio con riferimento a tale profilo, il Tribunale di Milano, con ordinanza 21 marzo 2013, n. 124, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del D.L. n. 158/2012, evidenziando la estrema debolezza del rinvio legislativo alle linee guida, in quanto “Precipuamente si consideri che l’esimente introdotta dall’art. 3.1 d.l. 158/12 conv. da l. 189/12 è costituita dai seguenti elementi: il soggetto attivo deve essere un esercente la professione sanitaria, deve commettere il reato nello svolgimento della propria attività, deve attenersi alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. In ordine a quest’ultimo profilo la formulazione normativa è tanto elastica da non consentire al giudice e prima ancora agli operatori sanitari di determinare esattamente i confini dell’esimente. In ordine alle lince guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica si osservi che trattasi di mere raccomandazioni per le quali la legge non offre alcun criterio di individuazione e determinazione. Diversamente da quanto accade nel campo della sicurezza del lavoro dove viene prevista una procedura di identificazione, raccolta, codificazione, pubblicità, adozione, in breve di serietà e scientificità delle linee guida e delle buone prassi (vedi artt. 2 lett. v) e z), 6 lett. d), 9 lett. i) e l) d.lvo 81/08), nel campo della responsabilità degli operatori sanitari non v’è alcuna indicazione normativa, a livello di legislazione primaria o secondaria, per orientare l’interprete e ancora prima lo stesso operatore sanitario, nella selezione delle condotte raccomandate, suggerite c/o accreditate. Non vengono specificate le fonti delle linee guida, quali siano le autorità titolare a produrle, quali siano le procedure di raccolta dei dati statistici e scientifici, di valutazione delle esperienze professionali, quali siano i metodi di verifica scientifica, e infine quale sia la pubblicità delle stesse per diffonderle e per renderle conoscibili agli stessi sanitari; così come per le prassi non viene specificato il metodo di raccolta, come possa individuarsi la “comunità scientifica” e se l’accreditamento debba provenire dalla “comunità scientifica” locale, regionale, nazionale, europea o internazionale. Se soltanto si considera che per talune specializzazioni mediche vi sono nel nostro paese tre linee guida regionali, tredici lince guida nazionali, alcune decine di linee guida europee (a differenza degli USA dove sono disponibili oltre duemila linee), giocoforza bisogna dedurne l’assoluta imprecisione e non determinabilità dei confini dell’area di non punibilità”.
La Corte Costituzionale, con ordinanza 6 dicembre 2013, n. 295 ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale in quanto “l’insufficiente descrizione della fattispecie concreta impedisce alla Corte la necessaria verifica della rilevanza della questione, affermata dal rimettente in termini meramente astratti e apodittici … le rilevate manchevolezze dell’ordinanza di rimessione comportano, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 99 del 2013, n. 314 e n. 268 del 2012), la manifesta inammissibilità della questione”.
[7] La ricostruzione della responsabilità del medico, dal punto di vista della imputazione soggettiva, è un tema sul quale, in passato, si sono contrapposti diversi orientamenti.
Un orientamento più risalente, riteneva rilevante, ai fini della responsabilità penale, esclusivamente la colpa grave, ricavando tale requisito dalla disposizione di cui all’art. 2236 c.c., in base al quale “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”. L’errore penalmente rilevabile, quindi, non poteva che essere quello “inescusabile, che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell’atto operatorio … o infine, nella mancanza di prudenza e diligenza che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria” (V. Cass. pen. 26 gennaio 1968).
Tale orientamento era stato meglio chiarito nel senso di attribuire rilevanza alla colpa grave esclusivamente con riferimento all’imperizia, mentre per la negligenza e l’imprudenza avrebbero dovuto trovare applicazione i consueti livelli di colpa. La Corte Costituzionale Corte Cost. 28 novembre 1973, n. 166, aveva affermato che: “La particolare disciplina in tema di responsabilità penale, desumibile dagli artt. 589 e 42 (e meglio, 43) del codice penale, in relazione all’art. 2236 del codice civile, per l’esercente una professione intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, è il riflesso di una normativa dettata (come si legge nella relazione del Guardasigilli al codice civile n. 917) “di fronte a due opposte esigenze, quella di non mortificare la iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista” stesso. Ne consegue che solo la colpa grave e cioè quella derivante da errore inescusabile, dalla ignoranza dei principi elementari attinenti all’esercizio di una determinata attività professionale o propri di una data specializzazione, possa nella indicata ipotesi rilevare ai fini della responsabilità penale.
Siffatta esenzione o limitazione di responsabilità, d’altra parte, secondo la giurisprudenza e dottrina, non conduce a dover ammettere che, accanto al minimo di perizia richiesta, basti pure un minimo di prudenza o di diligenza. Anzi, c’é da riconoscere che, mentre nella prima l’indulgenza del giudizio del magistrato é direttamente proporzionata alle difficoltà del compito, per le altre due forme di colpa ogni giudizio non può che essere improntato a criteri di normale severità.
Stante ciò, se si passa alla considerazione dell’intera normativa denunciata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, é agevole constatare che la questione non é fondata. Il differente trattamento giuridico riservato al professionista la cui prestazione d’opera implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, e ad ogni altro agente che non si trovi nella stessa situazione, non può dirsi collegato puramente e semplicemente a condizioni (del soggetto) personali o sociali. La deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa ha in sé una sua adeguata ragione di essere e poi risulta ben contenuta, in quanto é operante, ed in modo restrittivo, in tema di perizia e questa presenta contenuto e limiti circoscritti.
D’altra parte, l’asserita disparità di trattamento non può essere individuata nel fatto che per la formulazione del giudizio di colpevolezza degli imputati il “grado della colpa” operi come elemento di discriminazione, o che sul piano dell’applicazione della legge penale a parità di grado di colpa siano ricondotte conseguenze diverse, perché codesti due profili hanno il loro logico e sufficiente riscontro nella premessa già esaminata”.
Più di recente, la giurisprudenza di legittimità si era, tuttavia, attesta nel senso di ritenere inapplicabile l’art. 2236 c.c. in sede penale, pur affermando che tale disposizione potesse trovare applicazione “come regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di specifica difficoltà” (Cass. pen. 21 giugno 2007, n. 39692).
[8] Ex multis, Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141, Cass. 24 marzo 1979, n. 1716.
[9] Cass. 11 gennaio 2008, n. 577.
[10] V. Cass. 26 giugno 2012, n. 10616.
[11] V. Trib. Varese 26 novembre 2012 e Trib. Torino 26 febbraio 2013, nonché Trib. Milano 17 luglio 2014; Trib. Milano 2 dicembre 2014.
[12] Trib. Milano 17 luglio 2014.
[13] Va detto che, ove venga eccepita ovvero rilevata l’improcedibilità della domanda, il giudice, alla prima udienza, potrà alternativamente concedere termine per la proposizione del ricorso per ATP o per la proposizione dell’istanza di mediazione.
[14] Si precisa che il paziente asseritamente leso dovrà proporre ricorso per accertamento tecnico preventivo innanzi al giudice competente, precisando l’oggetto del futuro giudizio di merito, in modo da fornire al giudice gli elementi per valutare l’ammissibilità, la rilevanza e l’utilità della consulenza nel successivo giudizio di merito e quindi disporre la consulenza.